Vangelo di Sabato 19 Settembre 2015

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Prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 6,13-16.
Carissimo, al cospetto di Dio che dà vita a tutte le cose e di Gesù Cristo che ha dato la sua bella testimonianza davanti a Ponzio Pilato,
ti scongiuro di conservare senza macchia e irreprensibile il comandamento, fino alla manifestazione del Signore nostro Gesù Cristo,
che al tempo stabilito sarà a noi rivelata dal beato e unico sovrano, il re dei regnanti e signore dei signori,
il solo che possiede l’immortalità, che abita una luce inaccessibile; che nessuno fra gli uomini ha mai visto né può vedere. A lui onore e potenza per sempre. Amen.

Salmi 100(99),2.3.4.5.
Acclamate al Signore, voi tutti della terra,
servite il Signore nella gioia,
presentatevi a lui con esultanza.

Riconoscete che il Signore è Dio;
egli ci ha fatti e noi siamo suoi,
suo popolo e gregge del suo pascolo.

Varcate le sue porte con inni di grazie,
i suoi atri con canti di lode,
lodatelo, benedite il suo nome.

Buono è il Signore,
eterna la sua misericordia,
la sua fedeltà per ogni generazione.

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 8,4-15.
In quel tempo, poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola:
«Il seminatore uscì a seminare la sua semente. Mentre seminava, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono.
Un’altra parte cadde sulla pietra e appena germogliata inaridì per mancanza di umidità.
Un’altra cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute insieme con essa, la soffocarono.
Un’altra cadde sulla terra buona, germogliò e fruttò cento volte tanto». Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per intendere, intenda!».
I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola.
Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perchè vedendo non vedano e udendo non intendano.
Il significato della parabola è questo: Il seme è la parola di Dio.
I semi caduti lungo la strada sono coloro che l’hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati.
Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell’ora della tentazione vengono meno.
Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione.
Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza».

Produrre frutto con la perseveranza

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Badate che la parola che avete ricevuta risuoni nel fondo del vostro cuore e vi dimori. Fate attenzione che il seme non cada lungo la strada, per paura che lo spirito cattivo non venga a togliere la parola dalla vostra memoria. Fate attenzione che il terreno sassoso non riceva il seme e produca così una buona opera sprovvista delle radici della perseveranza. Molti infatti si rallegrano nell’udire la parola e si dispongono ad intraprendere opere buone. Ma, non appena le prove hanno cominciato ad assalirli, rinunciano a quello che avevano intrapreso. Perciò, poiché alla terra sassosa è mancata l’acqua, il germoglio nato dal seme non è riuscito a dare il frutto della perseveranza.

Invece la terra buona produce frutto con la pazienza: con ciò intendiamo che le nostre buone opere potranno avere qualche valore se sopporteremo con pazienza le noie procurateci dal nostro prossimo. Del resto, quanto più avanziamo verso la perfezione, tanto più abbiamo prove da sopportare; una volta che la nostra anima ha abbandonato l’amore del mondo presente, l’ostilità di questo mondo cresce. Per questo ne vediamo tanti affaticarsi sotto un carico pesante (Mt 11,28), quando le loro opere sono buone… Eppure secondo la parola del Signore, « producono frutto con la loro perseveranza » nel sopportare umilmente queste prove, cosicché, dopo aver faticato, saranno invitati a entrare nella pace del cielo.

San Gennaro Vescovo e martire


Gennaro è il santo Patrono principale di Napoli e, negli ultimi anni del pontificato di San Giovanni Paolo II (Karol Józef Wojtyła, 1978-2005), è tornato ad essere patrono delle due Sicilie, cioè del sud Italia.
Sulla sua vita non si hanno notizie storicamente documentate. Nato a Napoli nella seconda metà del III secolo, la sua storia è stata tramandata da opere agiografiche dove la realtà e la leggenda spesso si intrecciano e mescolano in un unico racconto, i cui elementi storici non sempre sono facilmente distinguibili. Il fatto che portò alla consacrazione di Gennaro sarebbe avvenuto all’inizio del IV secolo, durante la persecuzione dei cristiani da parte dell’imperatore Diocleziano.

Gennaro era il vescovo di Benevento e si recò insieme al lettore Desiderio ed al diacono Festo in visita ai fedeli a Pozzuoli. Il diacono di Miseno, Sossio – già amico di Gennaro che era venuto a trovarlo in passato a Miseno per discutere di fede e leggi divine -, volendo recarsi ad assistere alla visita pastorale, fu invece arrestato lungo la strada per ordine del persecutore Dragonzio, governatore della Campania. Gennaro, insieme a Festo e Desiderio, si recarono allora in visita dal prigioniero, ma, avendo intercesso per la sua liberazione, ed avendo fatto professione di fede cristiana, furono anch’essi arrestati e condannati da Dragonzio ad essere sbranati dagli orsi nell’anfiteatro di Pozzuoli. Il giorno dopo, tuttavia, per l’assenza del governatore stesso, impegnato altrove, il supplizio fu sospeso. Dragonzio comandò allora che a Gennaro ed ai suoi compagni venisse troncata la testa. Condotti nei pressi del Forum Vulcani (l’attuale Solfatara di Pozzuoli), essi furono decapitati nell’anno 305; il corpo di Gennaro sarebbe stato sepolto nell’Agro Marciano (Fuorigrotta?).
Secondo la tradizione, subito dopo la decapitazione sarebbe stato conservato del sangue, come era abitudine a quel tempo, raccolto da una pia donna di nome Eusebia che lo racchiuse in due ampolle; esse sono divenute un attributo iconografico tipico di S. Gennaro. Il racconto della pia donna è tuttavia recente e compare pubblicato per la prima volta solo nel 1579, nel volume del canonico napoletano Paolo Regio su “Le vite de’ sette Santi Protettori di Napoli”.

Documenti liturgici molto antichi, come il calendario cartaginese (redatto poco dopo il 505) ed il Martirologio Geronimiano del V secolo assegnano come data del martirio di Gennaro e dei suoi compagni il 19 settembre; indicano invece nel 13 aprile la data della prima traslazione dei resti del santo. Anche in un altro martirologio risalente all’ VIII secolo, redatto dal monaco inglese Beda, il 19 settembre viene indicato come data del martirio.
Nel calendario marmoreo di Napoli la data del 19 settembre viene indicata come “dies natalis” di S. Gennaro. Tutte queste fonti, e numerose altre ancora, attestano che la venerazione per il santo ha origini antichissime che risalgono all’epoca del suo martirio o, al più tardi, a quella della prima traslazione delle sue spoglie, avvenuta nel V secolo.

Le reliquie del santo furono trasportate dal re Giovanni I di Napoli nelle catacombe napoletane a Capodimonte che presero il nome del Santo, e qui furono centro di vivissimo culto. Di là il principe di Benevento Sicone, assediando la città di Napoli, nell’ 831, ne approfittò per impossessarsi dei resti mortali che riportò nella sua città, sede episcopale.
Le sante reliquie furono deposte nella Cattedrale – che allora si chiamava Santa Maria di Gerusalemme – ove restarono fino al 1154. In quell’anno, infatti, considerando che la città di Benevento non era più sicura, il re di Sicilia Guglielmo I, detto il Malo (1120-1166), provvide affinché esse venissero traslate nell’Abbazia di Montevergine. A Montevergine, però, la devozione dei pellegrini che vi si recavano era rivolta soprattutto a S. Guglielmo ed alla popolarissima icona bizantina della Madonna chiamata “Mamma Schiavona”, sicché di S. Gennaro si perse ben presto la memoria e addirittura la cognizione del suo luogo di sepoltura. A Napoli, invece, rimaneva vivissimo il culto, anche per la presenza delle altre sue reliquie: il capo e le ampolle col suo sangue.

Carlo II d’Angiò, detto lo zoppo (1248-1309), – re di Napoli (1285-1309) e di Sicilia (1285-1302) – dopo aver fatto eseguire dai maestri orafi francesi Stefano Godefroy, Guglielmo di Verdelay e Milet d’Auxerre un preziosissimo busto-reliquiario in argento dorato per contenere la testa e le ampolle col sangue del santo, espose per la prima volta la reliquia alla pubblica venerazione nel 1305. Suo figlio Roberto d’Angiò, detto il Saggio (1277 – 20 gennaio 1343), invece, fece realizzare la teca d’argento che custodisce le due ampolle del sangue.
Tuttavia la liquefazione del sangue non è attestata prima del 17 agosto 1389, allorché il miracolo si compì durante una solenne processione intrapresa per una grave carestia.
Quando a Montevergine, per merito del cardinale Giovanni di Aragona, furono ritrovate le ossa di S. Gennaro, collocate al di sotto dell’altare maggiore, la potente famiglia dei Carafa si impegnò, grazie soprattutto all’interessamento del cardinale Oliviero e con il sostegno di suo fratello l’arcivescovo napoletano Alessandro Carafa, affinché le reliquie tornassero a Napoli: la cosa avvenne nel 1497, non senza l’opposizione da parte dei monaci di Montevergine.
Come degno luogo per ospitarle, il cardinale Oliviero Carafa fece costruire nel Duomo di Napoli, al di sotto dell’altare maggiore, una cripta d’eccezione in puro stile rinascimentale: la Cappella del Succorpo.

A seguito di una terribile pestilenza che imperversò a Napoli fra il 1526 ed il 1529, i napoletani fecero voto a S. Gennaro di edificargli una nuova cappella all’interno del Duomo. Benché i lavori fossero iniziati solo nel 1608 e siano durati quasi quarant’anni, la sfolgorante e ricca Cappella del Tesoro di S. Gennaro venne infine consacrata nel 1646. Al di sopra del suo splendido cancello, realizzato da Cosimo Fanzago, figura l’iscrizione “Divo Ianuario e fame bello peste ac Vesaevi igne miri ope sanguinis erepta Neapolis civi patr. Vindici” (“A San Gennaro, al cittadino salvatore della patria, Napoli, salvata dalla fame, dalla guerra, dalla peste e dal fuoco del Vesuvio, per virtù del suo sangue miracoloso, consacra”).
Il 25 febbraio 1964 il cardinale arcivescovo Alfonso Castaldo fece la ricognizione canonica delle venerate reliquie: “Le ossa furono trovate ben custodite, in un’olla di forma ovoidale che reca incisa l’iscrizione calligrafica, Corpus Sancti Jannuarii Ben. E.P.”.
Una ricognizione scientifica eseguita il 7 marzo 1965 dal professore G. Lambertini stabilì che il personaggio a cui appartengono le ossa è da individuarsi in un uomo di età giovane (35 anni) di statura molto alta (m.1,90).
Secondo la leggenda, il sangue di S. Gennaro si sarebbe liquefatto per la prima volta ai tempi di Costantino, quando il vescovo S. Severo (secondo altri fu il vescovo Cosimo) trasferì le spoglie del santo dall’Agro Marciano, dove era stato sepolto, a Napoli. Durante il tragitto avrebbe incontrato la nutrice Eusebia con le ampolline del sangue del Santo: alla presenza della testa, il sangue nelle ampolle si sarebbe sciolto.
Oggi le due ampolle, fissate all’interno di una piccola teca rotonda realizzata con una larga cornice in argento e provvista di un manico, sono conservate nel Duomo di Napoli. Delle due ampolle, una è riempita di 3/4, mentre l’altra più alta è semivuota poiché parte del suo contenuto fu sottratto da re Carlo III di Borbone che lo portò con sé in Spagna.

Tre volte l’anno :
1. il primo sabato di maggio e negli otto giorni successivi, in ricordo della prima traslazione da Pozzuoli a Napoli;
2. il 19 settembre e per tutta l’ottava, ricorrenza della decapitazione;
3. il 16 dicembre «festa del patrocinio di S. Gennaro», in memoria della disastrosa eruzione del Vesuvio nel 1631, bloccata dopo le invocazioni al santo.
durante una solenne cerimonia religiosa guidata dall’arcivescovo, i fedeli accorrono per assistere al “miracolo della liquefazione del sangue di S. Gennaro”.

Il popolo napoletano nei secoli ha voluto vedere nella velocità del prodigio, un auspicio positivo per il futuro della città, mentre una sua assenza o un prolungato ritardo è visto come fatto negativo per possibili calamità da venire. La catechesi costante degli ultimi arcivescovi di Napoli ha convinto la maggioranza dei fedeli, che, anche la mancanza del prodigio o il ritardo vanno vissuti con serenità e intensificazione, semmai, di una vita più cristiana.
La liquefazione del sangue è innegabile e spiegazioni scientifiche finora non se ne sono trovate, come tutte le ipotesi contrarie formulate nei secoli, non sono mai state provate. È singolare il fatto, che a Pozzuoli, contemporaneamente al miracolo che avviene a Napoli, la pietra, conservata nella chiesa di S. Gennaro (vicino alla Solfatara), che si crede sia il ceppo su cui il martire poggiò la testa per essere decapitato, diventa più rossa.

Il vostro servitore, che ha preparato questa composizione agiografica, ha assistito, durante sei anni, molto da vicino, essendo seminarista, negli anni 50/60, al Seminario Arcivescovile di Napoli/Capodimonte, alle diverse liquefazioni del sangue di S. Gennaro che avvengono, “naturalmente”, solo e soltanto grazie alle ferventi, e spesso insistenti, preghiere del “Pastore” di Napoli e del suo “gregge”. (gpm)

Madonna di La Salette Apparizione: 19 settembre 1846

La Madonna lungo i secoli è apparsa molte volte, lasciando messaggi, incitando alla preghiera ed al pentimento dei peccati.

Per lo più Essa è apparsa a veggenti o persone di umili condizioni e di animo innocente, quasi a garanzia della veridicità degli eventi che si verificavano; così fu per l’apparizione:

nel 1531 di Guadalupe in Messico a S. Juan Diego Cuauhtiotatzin, un indio analfabeta;
a Lourdes nel 1858 a S. Bernadette Soubirous;
a Fatima nel 1917 ai tre pastorelli Giacinta, Francesco e Lucia, per citarne alcune fra le più famose.
Ma dodici anni prima delle apparizioni di Lourdes, così conosciute nel mondo, la Madonna era già apparsa nella stessa Francia.

Il 19 settembre 1846, circa alle tre del pomeriggio, su una montagna vicina al villaggio di La Salette-Fallavaux, due ragazzi, una pastorella di quindici anni di nome Mélanie Calvat e un giovane pastore di undici anni di nome Maximin Giraud, stanno pascolando le mucche.

Secondo il loro racconto, l’apparizione si compone di tre momenti:

Nel primo momento appare in una luce risplendente una bella Signora, vestita in una foggia straniera. La Signora sta seduta su una roccia, in lacrime, con la testa fra le mani.
In un secondo momento la Signora si alza e, parlando ai due ragazzi sia in francese che in patois, avrebbe loro affidato un messaggio diretto all’intera umanità e quindi da diffondere universalmente. Dopo essersi lamentata per le empietà e i peccati degli uomini, che comportano l’eterno allontanamento da Dio e quindi l’inferno se avessero perseverato nel male, la Signora annuncia la Divina Misericordia per chi si converte.
Successivamente comunica a ciascuno dei due fanciulli un segreto, prima di scomparire nel cielo, al di sopra del Mont-sous-les-Baisses (terzo momento dell’apparizione).
Il messaggio della Madonna di La Salette
Questa è la sintesi del messaggio di Maria nella Sua apparizione a La Salette, presentato in un linguaggio semplice e popolare in modo da essere capito anche dai fanciulli.
È un discorso patetico, rotto da singhiozzi … un discorso che va al cuore.

«Avvicinatevi, figli miei, non abbiate paura, sono qui per annunciarvi una grande novella.

Se il mio popolo non vuole sottomettersi, sono costretta a lasciare libero il braccio di mio Figlio. Esso è così forte e così pesante che non posso più trattenerlo.

Da quanto tempo soffro per voi!

Se voglio che mio Figlio non vi abbandoni, sono incaricata di pregarlo incessantemente. E voi non ci fate caso. Voi avrete un bel pregare, un bel fare: mai potrete ricompensarmi per la pena che mi son presa per voi.

Vi ho dato sei giorni per lavorare, mi son riservata il settimo e non me lo volete concedere.

Coloro che conducono i carri non sanno che ingiuriare il nome di mio Figlio.

A Messa non vanno che alcune donne di età; gli altri …

Queste sono le cose che aggravano tanto il braccio di mio Figlio.

Se il raccolto va male, la colpa è vostra …

Ma se si convertono, le pietre e le rocce si cambieranno in mucchi di grano e le patate si troveranno seminate nei campi.

Voi fate bene la vostra preghiera, figli miei?

Ah! bisogna farla bene sempre, sera e mattino.

Quando non avete tempo, dite almeno un Pater ed un’Ave: ma quando lo potrete, fatene di più.

Ebbene figli miei, fatelo passare a tutto il mio popolo …

Andate, figli miei, fatelo sapere bene a tutto il mio popolo.»

Vangelo di Venerdì 18 Settembre 2015

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Prima lettera di san Paolo apostolo a Timoteo 6,2c-12.
Carissimo, questo devi insegnare e raccomandare.
Se qualcuno insegna diversamente e non segue le sane parole del Signore nostro Gesù Cristo e la dottrina secondo la pietà,
costui è accecato dall’orgoglio, non comprende nulla ed è preso dalla febbre di cavilli e di questioni oziose. Da ciò nascono le invidie, i litigi, le maldicenze, i sospetti cattivi,
i conflitti di uomini corrotti nella mente e privi della verità, che considerano la pietà come fonte di guadagno.
Certo, la pietà è un grande guadagno, congiunta però a moderazione!
Infatti non abbiamo portato nulla in questo mondo e nulla possiamo portarne via.
Quando dunque abbiamo di che mangiare e di che coprirci, contentiamoci di questo.
Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione.
L’attaccamento al denaro infatti è la radice di tutti i mali; per il suo sfrenato desiderio alcuni hanno deviato dalla fede e si sono da se stessi tormentati con molti dolori.
Ma tu, uomo di Dio, fuggi queste cose; tendi alla giustizia, alla pietà, alla fede, alla carità, alla pazienza, alla mitezza.
Combatti la buona battaglia della fede, cerca di raggiungere la vita eterna alla quale sei stato chiamato e per la quale hai fatto la tua bella professione di fede davanti a molti testimoni.

Salmi 49(48),6-7.8-10.17-18.19-20.
Perché temere nei giorni tristi,
quando mi circonda la malizia dei perversi?
Essi confidano nella loro forza,
si vantano della loro grande ricchezza.

Nessuno può riscattare se stesso,
o dare a Dio il suo prezzo.
Per quanto si paghi il riscatto di una vita,
non potrà mai bastare per vivere senza fine,
e non vedere la tomba.

Se vedi un uomo arricchirsi, non temere,
se aumenta la gloria della sua casa.
Quando muore con sé non porta nulla,
né scende con lui la sua gloria.

Nella sua vita si diceva fortunato:
“Ti loderanno, perché ti sei procurato del bene”.
Andrà con la generazione dei suoi padri
che non vedranno mai più la luce.

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 8,1-3.
In quel tempo, Gesù se ne andava per le città e i villaggi, predicando e annunziando la buona novella del regno di Dio.
C’erano con lui i Dodici e alcune donne che erano state guarite da spiriti cattivi e da infermità: Maria di Màgdala, dalla quale erano usciti sette demòni,
Giovanna, moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che li assistevano con i loro beni

C’erano con lui i Dodici e alcune donne

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In quanto alla missione, il fatto di essere uomo o donna non comporta qui nessuna limitazione, così come non limita per nulla quella azione salvifica e santificante dello Spirito nell’uomo il fatto di essere giudeo o greco, schiavo o libero, secondo le ben note parole dell’apostolo: «Poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (Gal 3, 28).

Questa unità non annulla la diversità. Lo Spirito Santo, che opera una tale unità nell’ordine soprannaturale della grazia santificante, contribuisce in eguale misura al fatto che «diventano profeti i vostri figli», e che lo diventano anche «le vostre figlie». «Profetizzare» significa esprimere con la parola e con la vita «le grandi opere di Dio» (cf. At 2, 11), conservando la verità e l’originalità di ogni persona, sia donna che uomo. L’«eguaglianza»evangelica, la «parità» della donna e dell’uomo nei riguardi delle «grandi opere di Dio», quale si è manifestata in modo così limpido nelle opere e nelle parole di Gesù di Nazareth, costituisce la base più evidente della dignità e della vocazione della donna nella Chiesa e nel mondo. Ogni vocazione ha un senso profondamente personale e profetico. Nella vocazione così intesa ciò che è personalmente femminile raggiunge una nuova misura: è la misura delle «grandi opere di Dio», delle quali la donna diventa soggetto vivente ed insostituibile testimone.

San Giuseppe da Copertino Sacerdote O.F.M. Conv.


Giuseppe da Copertino, al secolo Giuseppe Maria Desa, nasce a Copertino, presso Lecce, in una stalla (ancora esistente nel suo stato primitivo) il 17 giugno 1603.
I suoi genitori furono Felice Desa e Franceschina Panaca. A sette anni iniziò la scuola, ma una grave malattia lo costrinse ad abbandonarla. Quando guarì, a 15 anni, si attribuì questo miracolo alla Madonna delle Grazie di Galatone (Lecce). Durante la malattia aveva pensato di farsi sacerdote francescano ma gli mancava, però, la dovuta istruzione.

Nel 1625, all’età di 22 anni, i frati presero a cuore la situazione e lo ammisero nella comunità, prima come oblato, poi come terziario e finalmente come fratello laico. Addetto ai lavori pesanti ed alla cura della mula del convento, Giuseppe, ben presto, espresse il desiderio di diventare sacerdote: sapeva appena leggere e scrivere ma intraprese gli studi con volontà e difficoltà. Quando dovette superare l’esame per il diaconato davanti al vescovo, accadde che a Giuseppe, il quale non era mai riuscito a spiegare il Vangelo dell’anno liturgico tranne un brano, il vescovo aprendo a caso il libro domandò il commento della frase: « Benedetto il grembo che ti ha portato »: era proprio l’unico brano che egli era riuscito a spiegare.
Quando trascorsi i tre anni di preparazione al sacerdozio, bisognava superare l’ultimo e più difficile esame, i postulanti conoscevano il programma alla perfezione, tranne Giuseppe; il vescovo ascoltò i primi che risposero brillantemente all’interrogazione e convinto che anche gli altri fossero altrettanto preparati, li ammise tutti in massa: era il 4 marzo 1628.

Per la seconda volta fra Giuseppe, superò l’ostacolo degli esami in modo stupefacente e, il 18 marzo 1628, a Poggiardo, fu ordinato sacerdote per volere di Dio.
Si definiva fratel Asino, per la sua mancanza di diplomazia nel trattare gli altri uomini, per la sua incapacità di svolgere un ragionamento coerente, per il non sapere maneggiare gli oggetti. Ciò nonostante, nel corso della sua vita, ebbe tanti incontri con persone di elevata cultura, con le quali parlava e rispondeva con una teologia semplice ed efficace.

Un professore dell’Università francescana di S. Bonaventura di Roma, disse: “L’ho sentito parlare così profondamente dei misteri di teologia, che non lo potrebbero fare i migliori teologi del mondo”. Possedeva, in effetti, il dono della scienza infusa, nonostante che si definisse “il frate più ignorante dell’Ordine Francescano”.
Amava i poveri, alzava la voce contro gli abusi dei potenti. Ai compiti propri del sacerdote, univa i lavori manuali, aiutava il cuoco, faceva le pulizie del convento, coltivava l’orto e usciva umilmente per la questua.
Amabile, sapeva essere sapiente nel dare consigli ed era molto ricercato dentro e fuori del suo Ordine. Dopo due anni di terribile aridità spirituale, che per tutti i mistici è la prova più difficile da superare, a frate Giuseppe si accentuarono i fenomeni delle estasi con levitazioni; dava improvvisamente un grido e si elevava da terra quando si pronunciavano i nomi di Gesù o di Maria. Una volta, nel contemplare un quadro della Madonna, mentre pregava davanti al Tabernacolo, volando, andò a posarsi in ginocchio in cima ad un olivo rimanendovi per una mezz’ora finché durò l’estasi.
In effetti volava nell’aria come un uccello, fenomeni che ancora oggi gli studiosi cercano di capire se erano di natura parapsicologica o mistica. Il fatto storico è che questi fenomeni sono avvenuti in presenza di tanta gente stupefatta: Giuseppe da Copertino non era un ciarlatano né un mago ma semplicemente un uomo di Dio che opera prodigi e si rivela ai più umili e semplici.
Comunque frate Giuseppe costituì un problema per i suoi Superiori che, per distogliere da lui l’attenzione del popolo, che sempre più numeroso accorreva a vedere il santo francescano, lo mandarono in vari conventi dell’Italia Centrale
Di lui si interessò l’Inquisizione di Napoli, che lo convocò per capire di cosa si trattasse e, nel monastero napoletano di S. Gregorio Armeno, davanti ai giudici, Giuseppe ebbe un’estasi. La Congregazione romana del Santo Uffizio, alla presenza del Pp Urbano VIII (Maffeo Barberini, 1623-1644), lo assolse dall’accusa di abuso della credulità popolare e lo confinò in un luogo isolato, lontano da Copertino e sotto sorveglianza del tribunale. Fu sballottato da un convento all’altro, a Roma, Assisi (1639-653), Pietrarubbia e Fossombrone (1653-1657).
Il 9 luglio 1657 Pp Alessandro VII (Fabio Chigi, 1655-1667) mise fine al suo peregrinare destinandolo ad Osimo, dove rimase per sette anni fino alla morte, continuando ad avere estasi, a sollevarsi da terra e ad operare prodigi miracolosi.
Muore il 18 settembre 1663 a 60 anni; il suo corpo è custodito nella cripta del santuario, in un’urna di bronzo dorato.

Fu beatificato da Pp Benedetto XIV (Prospero Lorenzo Lambertini, 1740-1758) il 24 febbraio 1753 e dichiarato santo da Pp Clemente XIII (Carlo Rezzonico, 1758-1769) il 16 luglio 1767.
È patrono degli studenti; gli aviatori cattolici statunitensi lo venerano come loro protettore.